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Area spaziosa, destinata alle solenni adunanze pastorali, limitata da una corona d'altissime e fronzute querce, che vagamente distribuite all'intorno conciliano un'ombra freschissima e sacra. Veggonsi lungo la serie degli alberi verdi rialzamenti di terreno, presentati dalla natura, e in varia forma inclinati dall'arte per uso di sedervi con graziosa irregolarità i pastori. Nel mezzo sorge un altare agreste, in cui vedesi scolpito l'animal prodigioso, da cui si dice, che pigliasse il nome la Città d'Alba. Dagl'intervalli, che s'aprono fra un albero e l'altro, si domina una deliziosa, e ridente campagna, sparsa di qualche capanna, e cinta in mediocre distanza d'amene colline, onde scendono copiosi e limpidi rivi. L'orizzonte va a terminare in azzurrissime montagne, le cui cime si perdono in un cielo purissimo e sereno.
SCENA PRIMA Venere in atto di scender dal suo carro. Ascanio a lato di esso. Le Grazie, e quantità di Geni che cantano e danzano accompagnando la Dea. Scesa questa, il carro velato da una leggera nuvoletta si dilegua per l'aria.
GENI e GRAZIE Di te più amabile, Né Dea maggiore, Celeste Venere No non si dà. Tu sei degli uomini, O Dea, l'amore: Di te sua gloria Il Ciel si fa. Se gode un popolo Del tuo favore, Più dolce imperio Cercar non sa. Con fren sì placido Reggi ogni core, Che più non bramasi La libertà.